È uscito recentemente per Feltrinelli-Real Cinema Philip Roth, una storia americana. Il pezzo forte è il film, una lunga intervista a Philip Roth a cura di William Karel e Livia Manera in cui Roth parla della sua vita, della scrittura, dei matrimoni, della psicanalisi, degli Stati Uniti. Intervengono anche amiche e amici dello scrittore nel tentativo di delineare per quanto possibile la storia di un uomo, del suo mestiere, dell’ambiente e dell’epoca in cui ha vissuto.
Insieme al dvd è allegato un libro a cura di Francesca Baiardi dove ci sono recensioni d’epoca, il discorso d’accettazione di Roth del premio letterario NBCC ricevuto nel 1988, e poi scritti e interventi di Giorgio Vasta, Alessandro Piperno, Francesco Piccolo, Elisabetta Rasy, Nicoletta Vallorani, Irene Bignardi, Barbara Garlaschelli, Gaia Servadio.
C’è anche un’intervista al sottoscritto che riproduco per i lettori di minima&moralia.
Quando ha letto il primo libro di Roth?
Era il 1992 e avevo iniziato da pochi mesi l’università. A distanza di ventitré anni non doveva evidentemente essersi ancora spento lo scandalo – e il successo – di “Lamento di Portnoy”, a quell’epoca in Italia ancora il romanzo più noto di Roth, forse non del tutto a torto considerando che il suo periodo magico sarebbe iniziato solo a partire dall’anno successivo con “Operazione Shylock”, e questo nonostante il papà di Zuckerman avesse già alle spalle prove notevoli come “Patrimonio” o “Lo scrittore fantasma”. Acquistai e lessi dunque “Lamento di Portnoy”. Mi sembrò il libro divertente di un autore molto talentuoso, ma nulla che lasciasse presagire i grandiosi romanzi degli anni Novanta. Se Roth avesse smesso di scrivere nel 1993 oggi lo ricorderemmo come un ben riuscito epigono (con sprazzi di autentica originalità) dei vari Bellow e Malamud e non il gigante della letteratura nord-americana del secondo Novecento che è. Ma nell’arco di cinque anni (dal 1995 al 2000) Philip Roth pubblica, uno dietro l’altro, “Il teatro di Sabbath”, “Pastorale americana”, “Ho sposato un comunista” e “La macchia umana”, la serie impressionante – oserei dire devastante, per chi voglia sottoporre il suo talento a ordinari strumenti di misurazione – di grandi libri che consegna il suo nome alla memoria del futuro.
Portnoy è un personaggio spassosissimo, ma partecipa sin troppo della cronaca e dei costumi dei tardi anni Sessanta, ha mezzo piede nella letteratura e l’altro mezzo nella sociologia del tempo. Il negro-bianco Silk Coleman, l’erotomane Mickey Sabbath, lo “svedese”Seymour Levov, l’analfabeta Faunia Farley e il suo terribile ex marito Lester, l’allegra ninfomane Drenka Balich, l’ex miss New Jersey Dawn Dwyer sono al contrario personaggi shakespeariani, tolstojani e stendhaliani insieme, viaggiano su quell’alternativa linea cronologica capace di darci l’impressione che alcune storie – scritte anche due o tre secoli fa – provengano sempre in qualche modo dal futuro, uno strano futuro prossimo che è poi il tempo della vera letteratura, una dimensione alla quale avremo accesso fino a quando qualcosa del nostro essere umani non cambierà radicalmente.
Esiste un personaggio di Roth cui è particolarmente legato?
Drenka Balich, la strepitosa amante dell’ormai anziano Mickey Sabbath: un incredibile concentrato di vitalità e una credibile storta reincarnazione di Molly Bloom a Madamaska Falls, New England. E poi, in un senso molto diverso, anche Lester Farley, il tormentato pazzoide reduce del Vietnam de La macchia umana.
C’è un libro di Roth che sente più vicino a lei come scrittore? E come lettore?
Le mie preferenze non divergono moltissimo da quelle dello stesso Roth. Io metto al primo posto “Il teatro di Sabbath”, poi “La macchia umana” e subito dopo “Pastorale americana” (lì dove la classifica personale di Roth vede “Sabbath” al primo posto e “Pastorale” al secondo). Tra l’altro “Il teatro di Sabbath”, come più volte ha ricordato Roth, fu il classico libro scritto tutto d’un fiato, con qualche riscrittura in meno cioè rispetto al comunque faticosissimo incessante lavoro di revisione a cui lui sottopone ogni suo testo. “Il teatro di Sabbath” fu scritto con tutto il talento e l’abilità che risplendono in “Pastorale americana” ma anche con una sorta di furia nera che manca agli altri suoi grandi libri, e che a mio parere rivive (ma in una forma quasi postuma) nei momenti più intensi del rapporto tra Silk Coleman e Faunia Farley de “La macchia umana”. Cos’ha tuttavia Mickey Sabbath che manca allora a Levov e Coleman?
Questi ultimi due personaggi sono borghesi per quanto di indole diversa tra loro, uomini a cui il mondo sta crollando addosso a causa di un elemento antisociale e antiborghese presente a un certo punto delle loro biografie (le rimosse origini afroamericane di Silk Coleman e il suo rapporto con l’analfabeta Faunia, la figlia pazzoide e il passaggio dagli Stati Uniti dei Roosvelt a quelli delle Linda Lovelace e di “Gola profonda” nel caso di Levov “lo Svedese”). Mickey Sabbath crolla invece continuamente su se stesso, è lui a essere un antisociale e un antiborghese conficcato nella borghese civilissima società americana degli artisti progressisti e dei professori universitari così cara a Roth e senza la quale non solo Roth ma lo stesso Sabbath non potrebbe esistere. Sabbath è non solo una contraddizione, ma un cortocircuito vivente. Nei momenti più scatenati della sua vicenda è Calibano, ma in quelli più tragici è una sorta di King Lear senza corona e senza figlie che avanza solo nella tempesta. I suoi compagni di viaggio sono i becchini-clown dell’Amleto tanto da farmi arrivare a dire che, attraverso Sabbath (massimo del vitalismo e massimo del mortifero in un solo burattinaio), il re degli scrittori materialisti e atei nordamericani non tanto si apra al metafisico, ma sfiori (freudianamente, darwinianamente, forse addirittura etologicamente) un nostro qualche segreto di specie, misterioso in certi aspetti per lo stesso Philip Roth. “Il teatro di Sabbath” mi sembra insomma il più bel romanzo di Roth perché Mickey Sabbath è un personaggio anche più grande dello scrittore che l’ha generato.
Di che cosa avrebbe scritto Roth se fosse stato italiano?
Le terribili premurosissime mamme ebree delle storie di Philip Roth non sono così diverse da quelle del meridione d’Italia. Il meccanismo del senso di colpa (e autoindulgenza sotterranea) da innescare nei figli maschi è molto simile. La retorica del self-made man (ciò che dal nulla fa grande uno come Coleman) in Italia sarebbe sostituita dalla necessità del peggior nepotismo per emergere – una faccenda molto sendhaliana (penso al Julien Sorel de “Il rosso e il nero”) che a Roth non dispiacerebbe poi del tutto, appartenendo egli a quella non piccola schiera di scrittori americani che soffrono un inconfessato ma non sempre giustificato complesso d’inferiorità – e dunque spasmodici interesse e influenza – per certa letteratura francese ottocentesca (sensata, la sensazione di inadeguatezza, per gli Hugo e i Balzac, meno per i de Maupassant), il che sulla pagina è comunque un buon carburante per scene memorabili (penso alla vendetta sulla povera, ridicola e caricaturale professoressa francese consumata ne La macchia umana). Se il caso Clinton-Lewinsky ha infine ispirato La macchia umana, cosa sarebbe accaduto con un caso Arcore? Forse non moltissimo, temo. Il problema infatti è che in Italia è caduta completamente (in modo direi anche disastroso) quella particolare ipocrisia sul malcostume capace di trasformarsi in biasimo e sanzione quando il vizio supera il livello di guardia.
I primi tre aggettivi che le vengono in mente quando pensa a Philip Roth
Robusto. Talentuoso. Audace con qualche eccessiva preoccupazione di eccedere e sbagliare. Se devo trovare un limite per un così grande autore, è questo, esente in certi veri e propri semidei in terra quali furono Melville e Faulkner.
Il suo messaggio di auguri per gli 80 anni di Roth
Che dopo tanti decenni di fatica (e di bellissimi regali per noi lettori) si goda ora pienamente tutti i buoni amici, e le occasioni di festa e di relax, che si è negato o ha solo trascurato attraverso la scrittura. Grazie Philip Roth.